In
riferimento al discorso tenuto da papa Francesco lo scorso 27 febbraio alla
congregazione dei vescovi L’Osservatore Romano ha titolato: «Ecco i vescovi che
vogliamo avere».
Il titolo “a 9 colonne” e l’inusuale lunghezza dell’intervento
sono segnali evidenti della particolare importanza che ha rivestito l’evento.
Quando papa Francesco si rivolge ai vescovi la circostanza assume sempre
un certo rilievo e in particolare questo discorso, per i toni e gli
accenti usati oltre alla già citata lunghezza, è centrale per capire la
figura di pastore che il pontefice sta imprimendo nella Chiesa.
L’essenza dell’episcopato è, per Bergoglio, essere «testimone della
resurrezione» . La Chiesa non ha bisogno di teologi, conferenzieri o
amministratori ma di pastori capaci di accendere la fede, tenere viva la
grande promessa scritta nel cuore di ogni fedele di riposare un giorno in Dio.
Parlando ai vescovi, in contro luce, papa Francesco offre un ulteriore
occasione per ribadire gli intenti del suo pontificato.
La grande ricchezza della Chiesa,
ricorda il papa, è nella successione apostolica. Nessun altro può garantire
questo saldo rapporto con le origini. Questo legame è una luce per il mondo il
quale invece sperimenta continuamente la rottura, il tradimento: «hanno bisogno
di trovare nella Chiesa quel permanere indelebile della grazia del principio».
È quindi nell’età apostolica che la Chiesa offre ciò che ha di più «alto e
profondo» perché il «domani della Chiesa abita sempre nelle sue origini».
Dagli Atti degli apostoli la Chiesa è perciò illuminata sul criterio
essenziale che tratteggia il volto di colui che deve essere guida del popolo di
Dio, chiamato ad essere “testimone della resurrezione”(At 1, 21-22).
Il cuore del discorso pulsa di
attributi e virtù che devono qualificare il vescovo. Una esortazione in
cui il papa lo invita a seguire lo stile e a prendere come modello il suo
pontificato che punta a incantare il mondo per attirarlo a se: «Uomini custodi
della dottrina non per misurare quanto il mondo viva distante dalla verità che
essa contiene, ma per affascinare il mondo, per incantarlo con la bellezza
dell’amore, per sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo».
Insiste ancora: «La Chiesa non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né
di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della
verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della
sua potenza». Parole che riecheggiano quanto disse lo scorso 21 giungo ai
nunzi quando parlò del delicato compito di collaborazione che essi hanno
nelle nomine episcopali. In quell’occasione ribadì il criterio principale che
il vescovo deve avere: «E’ un gran teologo, una grande testa: che vada
all’Università, dove farà tanto bene! Pastori! Ne abbiamo bisogno! Che siano,
padri e fratelli, siano miti, pazienti e misericordiosi; che amino la povertà,
interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e
austerità di vita, che non abbiano una psicologia da “Principi”».
La cura del gregge è la parola
d’ordine che il papa impone al suo episcopato. E, in chiusura, non perde
occasione per bacchettare quei vescovi troppo impegnati in viaggi e conferenze
che distolgono il pastore dalla quotidianità della diocesi e ricorda il
concilio di Trento che aveva decretato sull’obbligo di residenza: «Perciò è
importante ribadire che la missione del Vescovo esige assiduità e quotidianità.
Io penso che in questo tempo di incontri e di convegni è tanto attuale il
decreto di residenza del Concilio di Trento: è tanto attuale e sarebbe bello
che la Congregazione dei Vescovi scrivesse qualcosa su questo».
Scritto
da Michele Canali
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