martedì 25 novembre 2014

CAPIRE LA CRISI - PARTE 1



La crisi rappresenta l'epilogo di una finanza fuori controllo.

            L'invecchiamento della popolazione nelle aree più ricche del pianeta è certamente un altro elemento di forte instabilità, ma ha avuto un ruolo assai rilevante anche la speculazione internazionale, con il distacco sempre più evidente dai parametri dell'economia reale,


 così come l'assenza di autorità di controllo adeguate, la carenza nei meccanismi globali di governo dei problemi, la mediocrità della classe politica, l'eccesso di libertà d'azione concessa agli operatori economici, la scarsa o l'eccessiva presenza dello Stato nell'economia o persino la burocrazia e la corruzione. 

            Nessuna spiegazione, tuttavia, è così soddisfacente e cristallina come quella che porta a identificare il vero focolaio della crisi in uno stato preciso dell'animo umano: l'avidità.

            L'avidità umana è da più parti indicata quale vero fattore scatenante della crisi, oltre che responsabile della deriva di un certo tipo di capitalismo.

            Ma l'avidità, diranno ancora gli scettici, non si può misurare, controllare, rilevare, non la si può nemmeno fermare o sanzionare. Dunque, a che serve incolparla per questa crisi? Invece è riconoscibilissima, nelle azioni delle persone e delle istituzioni, molto più visibile o comprensibile, a uno sguardo onesto ed educato alla giustizia, di un prodotto finanziario strutturato, di un derivato o di un mutuo ad alto rischio. E' un fattore di pericolo potentissimo per l'economia e la società.

Tanto per spiegarci, l'avidità è una forma di deriva morale peggiore dell'egoismo.

            L'egoista, però, può arrivare ad accogliere il concetto di lealtà, di rispetto dell'avversario, di onestà, nel tentativo di perseguire il proprio profitto personale. E, per esteso, quello della collettività.

L'avido no. L'avidità, versione moderna dell'avarizia, è distruttiva.

            E' sempre l'avidità a indurre le persone o le imprese a voler vivere di rendita - che sia piccola o grande poco conta - rinunciando a produrre onesti profitti, a investire per creare sviluppo e benessere diffuso. E c'è l'avidità dietro la corruzione, l'evasione fiscale, gli oligopoli, le intese che restringono la concorrenza, il mito dell'assistenzialismo. Nella truffa verso i clienti di una banca, come nella ricerca ossessiva di un investimento che assicuri rendimenti - chissà come - molto superiori alle condizioni di mercato.

            L'avidità è la madre della vita facile, il faro di chi vede nel lavoro una minaccia, il volano di un agire economico che non prevede responsabilità di azioni che escludono a priori solidarietà e carità. L'avidità è all'origine di tutti quei comportamenti che creano un benessere artificiale facendo pagare i danni a qualcun altro. Distruggendo capitale sociale e arrivando a minacciare la pace.

            Prima che frutto di una deriva finanziaria o politica sia in realtà una crisi di tipo morale: non in quanto violazione di una manciata di regole etiche, ma come globale e diffusa perdita di senso della realtà e di disprezzo del bene comune. A ogni livello.

            Il sistema, introdotto dalla globalizzazione, funziona così: la stragrande maggioranza degli oggetti che vengono prodotti da aziende americane e venduti in tutto il mondo - dai tablet, alle camice alla moda - è realizzato in Asia beneficiando di una manodopera che costa quasi niente (sia in termini di dollari, sia, spesso, in termini di  diritti umani) e accettando un cambio con lo yuan, la moneta cinese, tenuto artificialmente basso per mantenere vantaggiosi i prodotti di Pechino.

            Le merci, in tal modo, costano meno di quello che dovrebbero, i prezzi in patria sono sotto controllo, l'inflazione non corre troppo, mentre la differenza tra il bassissimo prezzo di produzione in Asia e quello di vendita nel resto del mondo si trasforma in meravigliosi profitti per le imprese e le multinazionali, fiorisce nei dividendi per gli azionisti, nei guadagni di Borsa, nei premi ai manager, nel pil che corre. Una manna.

            Tutto lecito e regolare. Gli americani hanno cominciato ad applicare questo modello nel sudest asiatico già dagli anni Settanta. l'invenzione della globalizzazione non è un fattore negativo; anzi, ha portato e porterà benessere in aree del mondo per anni emarginate o escluse dallo sviluppo. Il problema, come sempre, sono gli squilibri spinti all'eccesso, le esagerazioni, le derive patologiche e le tentazioni degli esseri umani a cavalcare la rendita oltre ogni ragione.

EMMANUELE
FONTE: Autore: Massimo Calvi; Titolo Capire la crisi; Editore: Rubbettino

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