Da circa un
decennio serpeggia silenzioso il desiderio di trovare una qualche risposta
all'inquietante interrogativo: perché gli uomini di oggi sono sempre più
preoccupati del presente e spaventati del futuro? Cosa affligge gli abitanti
delle società più ricche, opulenti e dinamiche? La risposta che ricorre spesso
è: il cambiamento!
A ben guardare assistiamo, increduli
e ammutoliti, ad uno scenario sociale, politico,economico che sembra cambiare
rapidamente; una tale rapidità per cui qualcuno parla di un profondo
sommovimento storico paragonabile alla Rivoluzione industriale o alla fine del
Medioevo. Tutto sembra muoversi all'opposto: destra contro sinistra, bianco
contro nero, ricco contro povero, nord contro sud.
Si parla di un tempo di transizione
che assume diversi nomi, società post-industriale, tardo-capitalismo,
post-moderno, che messi insieme e discussi portano ad un quadro sul disagio
della modernità. E qui si spazia tra ricerche, studi, sondaggi, pubblicazioni
sul disagio sociale, politico, economico, familiare, giovanile, scolastico; il
disagio che l'uomo oggi prova in questa giungla di poteri occulti, di
burocrazie, di scalate e di conseguenti schiacciamenti. E già! c'è sempre
qualcuno che "paga" ... e purtroppo non si tratta di numeri sparuti e
insignificanti ma di una massa enorme di nuovi poveri sempre più schiacciati e
bistrattati.
In un tempo come il nostro,
altamente specializzato, tecnologizzato, robotizzato, può sembrare paradossale,
ma mentre le macchine, le tecniche avanzano, l'uomo regredisce. Un uomo che si
adatta, si accomoda, subisce rimanendo passivo, un uomo che lentamente perde
dignità.
Ma lo sguardo più attento e profondo
ci fa intravedere il mondo dei deboli, dei poveri, un mondo che oggi non si
manifesta più solo con la figura dell'accattone o di colui che all'angolo della
strada, attraverso una musichetta straziante e mal registrata, ti tende la sua
scatoletta di cartone o un piattino
occasionale.
Chi parla oggi del fortissimo
aumento dei suicidi di giovani e meno giovani nel nostro paese? Chi parla della
fragilità psichica, della debolezza pedagogica che si insinua sottilmente in
tutti gli strati della società? Lo confesso con molta sincerità, dopo circa
ventotto anni di impegno e fatica, di errori, ma anche di interventi concreti
nella mia città di Torino ho imparato che se è necessario non abbassare mai la
guardia nei confronti della droga, dell'alcolismo, della violenza, della
marginalità, delle nuove povertà, oggi, ciò che più mi rende inquieto, e può
sembrare paradossale, e può sembrare una provocazione il dirlo qui, sono le
famiglie passive e i giovani passivi.
E' quella passività che si respira,
tra le quattro mura di tante case, dove la gente vive ripiegata su se stessa, si
disinteressa di quanto capita sul pianerottolo del suo condominio e tanto di
più di quel che succede giù nella via e nella comunità. Quelle case dove frasi
come "se lo sono voluto, se lo sono cercato, che si arrangino",
"è tempo sprecato occuparsi degli altri, intervenire in un certo
modo", sono ritornelli quotidiani dove tutto viene semplificato ed
etichettato per rimuovere l'interesse e la partecipazione.
E' questa realtà fatta di passività,
di indifferenza, di alibi, il dato più inquietante per me e per tanti altri
amici che lavorano sui versanti della marginalità.
Poniamoci allora una domanda: che
cosa facciamo come comunità, associazioni, singoli individui per stanare le
persone dalla loro indifferenza e passività? Per indurre quelle che sono
ripiegate su se stesse ad uscire dal chiuso delle loro rinunce? Per avvicinare
coloro che delegano e che stanno alla finestra? Come possiamo far conoscere la
geografia umana e psicologica di chi vive riparato dietro al perbenismo, alla
normalità, alla regolarità?
Cosa facciamo noi Europei nei
confronti dei tanti paesi del Sud per anni usati ed oggi scaricati con i loro
problemi, le loro fragilità, le loro domande? Che cosa facciamo per
quell'Africa, usata dalle grandi potenze come riserva di caccia e di accumulo
ed oggi dimenticata perché gli interessi economici e politici vanno da altre
parti? Davanti a questi scenari non possiamo come comunità cristiane rivolgere
gli occhi altrove o fingere di non sapere, dobbiamo andare oltre i confini
delle nostre città e dei nostri paesi.
Oggi la solidarietà rischia di
diventare spesso un attaccapanni, in uso a tutti. Non c'è congresso o raduno
sindacale che non si svolga in nome delle solidarietà. Non c'è documento della
Chiesa che non ne parli! Non c'è legge del Parlamento italiano che non la
sottolinei. Anche la legge sulla droga parla per ben quattro volte di
solidarietà. Tutti ne parlano: politici, religiosi, cittadini. Ma stiamo
attenti alle forme di solidarietà che possono diventare degli alibi. La
solidarietà è una scelta, uno stile di vita. Non è una elemosina. Ogni persona
porta con sé dei doveri ma anche dei diritti.
Solidarietà vuol dire inchiodare
ciascuno alle proprie responsabilità, con rispetto, con dignità. E'aiutare la
gente a crescere, cercando di venire in contro alle fragilità e alle debolezze
delle singole persone. Ma vuol anche dire prendere le distanze dal pietismo che
sta riemergendo nel nostro paese attraverso forme penose e strumentali di aiuto
come quelle degli sponsor.
Quando in televisione l'appello alla
solidarietà diventa in realtà un mezzo per vendere o pubblicizzare qualche
prodotto, per lanciare una lotteria, si va esattamente nel senso contrario a
quello proposto, dividono le persone in due categoria, quelle dei cittadini
sani e forti, potenti che hanno dei diritti da far rispettare, quella dei
deboli, dei poveri, dei bisognosi che possono essere soccorsi.
Basta con queste giornate per i
poveri, per la droga, per gli ammalati di AIDS! Questo non significa che non
sia importante ricordare, indicare delle giornate per riflettere. Significa che
non si possono usare i poveri, gli ammalati, gli emarginati per fornire
passerelle ed esibizioni, per sostituire alla giustizia una sottile forma di pietismo.
Nell'era della telematica, dei
satelliti, dell'alta definizione, c'è una grande povertà d'informazione. Siamo
sommersi da una marea di notizie pressochè inutili. C'è troppa cronaca, troppo
spettacolo, troppa ricerca di sensazioni e di emotività. Ma chi dà veramente
una mano alla gente perché capisca, perché si orienti? L'informazione è
necessaria, è un diritto, ma non è informazione onesta quella che enfatizza
oltre misura le cose, che non scende in profondità, che si arresta alla
superficie.
La società non cambia, se non cambia
l'economia, se non c'è più giustizia ed equità. Senza questo cambiamento i
soliti appelli morali sono inefficaci e retorici. Così come è inutile produrre
documenti, fare proclami, pubblicarli su carta patinata, quando il senso di cittadinanza,
di coscienza civica, viene meno.
C'è un impegno che mi sta a cuore:
l'educare. Educare alla solidarietà educare alla pace, alla non violenza,
all'ambiente, alla essenzialità, alla tolleranza, al "far salute"
Ci sono i bisogni della gente che arranca,
che fa fatica. Sono gli stessi bisogni che abbiamo noi, magari un po più
colorati, e forse gridati: il bisogno dell'affettività, dell'amicizia,
dell'amore. C'è attenzione nelle nostre famiglie, nella scuola, nella Chiesa
nell'educare per questi bisogni? C'è attenzione per chi è solo, per chi
arranca? Penso spesso agli anziani ed alla loro solitudine! Un secondo grande
bisogno è quello della comunicazione, del dialogo e dell'ascolto.
C'è ancora un bisogno fondamentale,
quello di dare un senso, un significato, uno scopo profondo alla vita. Io credo
in un profondo bisogno di Assoluto. Ognuno lo esprime a modo suo.
EMMANUELE
FONTE:
Autore: Luigi Ciotti; Titolo: Disagio Sociale e Nuove Povertà; Edizioni CdG
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