venerdì 31 gennaio 2014

DISAGIO SOCIALE



            Da circa un decennio serpeggia silenzioso il desiderio di trovare una qualche risposta all'inquietante interrogativo: perché gli uomini di oggi sono sempre più preoccupati del presente e spaventati del futuro? Cosa affligge gli abitanti delle società più ricche, opulenti e dinamiche? La risposta che ricorre spesso è: il cambiamento!

            A ben guardare assistiamo, increduli e ammutoliti, ad uno scenario sociale, politico,economico che sembra cambiare rapidamente; una tale rapidità per cui qualcuno parla di un profondo sommovimento storico paragonabile alla Rivoluzione industriale o alla fine del Medioevo. Tutto sembra muoversi all'opposto: destra contro sinistra, bianco contro nero, ricco contro povero, nord contro sud.

            Si parla di un tempo di transizione che assume diversi nomi, società post-industriale, tardo-capitalismo, post-moderno, che messi insieme e discussi portano ad un quadro sul disagio della modernità. E qui si spazia tra ricerche, studi, sondaggi, pubblicazioni sul disagio sociale, politico, economico, familiare, giovanile, scolastico; il disagio che l'uomo oggi prova in questa giungla di poteri occulti, di burocrazie, di scalate e di conseguenti schiacciamenti. E già! c'è sempre qualcuno che "paga" ... e purtroppo non si tratta di numeri sparuti e insignificanti ma di una massa enorme di nuovi poveri sempre più schiacciati e bistrattati.

            In un tempo come il nostro, altamente specializzato, tecnologizzato, robotizzato, può sembrare paradossale, ma mentre le macchine, le tecniche avanzano, l'uomo regredisce. Un uomo che si adatta, si accomoda, subisce rimanendo passivo, un uomo che lentamente perde dignità.

            Ma lo sguardo più attento e profondo ci fa intravedere il mondo dei deboli, dei poveri, un mondo che oggi non si manifesta più solo con la figura dell'accattone o di colui che all'angolo della strada, attraverso una musichetta straziante e mal registrata, ti tende la sua scatoletta di cartone o un  piattino occasionale.

            Chi parla oggi del fortissimo aumento dei suicidi di giovani e meno giovani nel nostro paese? Chi parla della fragilità psichica, della debolezza pedagogica che si insinua sottilmente in tutti gli strati della società? Lo confesso con molta sincerità, dopo circa ventotto anni di impegno e fatica, di errori, ma anche di interventi concreti nella mia città di Torino ho imparato che se è necessario non abbassare mai la guardia nei confronti della droga, dell'alcolismo, della violenza, della marginalità, delle nuove povertà, oggi, ciò che più mi rende inquieto, e può sembrare paradossale, e può sembrare una provocazione il dirlo qui, sono le famiglie passive e i giovani passivi.

            E' quella passività che si respira, tra le quattro mura di tante case, dove la gente vive ripiegata su se stessa, si disinteressa di quanto capita sul pianerottolo del suo condominio e tanto di più di quel che succede giù nella via e nella comunità. Quelle case dove frasi come "se lo sono voluto, se lo sono cercato, che si arrangino", "è tempo sprecato occuparsi degli altri, intervenire in un certo modo", sono ritornelli quotidiani dove tutto viene semplificato ed etichettato per rimuovere l'interesse e la partecipazione.

            E' questa realtà fatta di passività, di indifferenza, di alibi, il dato più inquietante per me e per tanti altri amici che lavorano sui versanti della marginalità.

            Poniamoci allora una domanda: che cosa facciamo come comunità, associazioni, singoli individui per stanare le persone dalla loro indifferenza e passività? Per indurre quelle che sono ripiegate su se stesse ad uscire dal chiuso delle loro rinunce? Per avvicinare coloro che delegano e che stanno alla finestra? Come possiamo far conoscere la geografia umana e psicologica di chi vive riparato dietro al perbenismo, alla normalità, alla regolarità?

            Cosa facciamo noi Europei nei confronti dei tanti paesi del Sud per anni usati ed oggi scaricati con i loro problemi, le loro fragilità, le loro domande? Che cosa facciamo per quell'Africa, usata dalle grandi potenze come riserva di caccia e di accumulo ed oggi dimenticata perché gli interessi economici e politici vanno da altre parti? Davanti a questi scenari non possiamo come comunità cristiane rivolgere gli occhi altrove o fingere di non sapere, dobbiamo andare oltre i confini delle nostre città e dei nostri paesi.

            Oggi la solidarietà rischia di diventare spesso un attaccapanni, in uso a tutti. Non c'è congresso o raduno sindacale che non si svolga in nome delle solidarietà. Non c'è documento della Chiesa che non ne parli! Non c'è legge del Parlamento italiano che non la sottolinei. Anche la legge sulla droga parla per ben quattro volte di solidarietà. Tutti ne parlano: politici, religiosi, cittadini. Ma stiamo attenti alle forme di solidarietà che possono diventare degli alibi. La solidarietà è una scelta, uno stile di vita. Non è una elemosina. Ogni persona porta con sé dei doveri ma anche dei diritti.

            Solidarietà vuol dire inchiodare ciascuno alle proprie responsabilità, con rispetto, con dignità. E'aiutare la gente a crescere, cercando di venire in contro alle fragilità e alle debolezze delle singole persone. Ma vuol anche dire prendere le distanze dal pietismo che sta riemergendo nel nostro paese attraverso forme penose e strumentali di aiuto come quelle degli sponsor.

            Quando in televisione l'appello alla solidarietà diventa in realtà un mezzo per vendere o pubblicizzare qualche prodotto, per lanciare una lotteria, si va esattamente nel senso contrario a quello proposto, dividono le persone in due categoria, quelle dei cittadini sani e forti, potenti che hanno dei diritti da far rispettare, quella dei deboli, dei poveri, dei bisognosi che possono essere soccorsi.

            Basta con queste giornate per i poveri, per la droga, per gli ammalati di AIDS! Questo non significa che non sia importante ricordare, indicare delle giornate per riflettere. Significa che non si possono usare i poveri, gli ammalati, gli emarginati per fornire passerelle ed esibizioni, per sostituire alla giustizia una sottile forma di pietismo.

            Nell'era della telematica, dei satelliti, dell'alta definizione, c'è una grande povertà d'informazione. Siamo sommersi da una marea di notizie pressochè inutili. C'è troppa cronaca, troppo spettacolo, troppa ricerca di sensazioni e di emotività. Ma chi dà veramente una mano alla gente perché capisca, perché si orienti? L'informazione è necessaria, è un diritto, ma non è informazione onesta quella che enfatizza oltre misura le cose, che non scende in profondità, che si arresta alla superficie.

            La società non cambia, se non cambia l'economia, se non c'è più giustizia ed equità. Senza questo cambiamento i soliti appelli morali sono inefficaci e retorici. Così come è inutile produrre documenti, fare proclami, pubblicarli su carta patinata, quando il senso di cittadinanza, di coscienza civica, viene meno.

            C'è un impegno che mi sta a cuore: l'educare. Educare alla solidarietà educare alla pace, alla non violenza, all'ambiente, alla essenzialità, alla tolleranza, al "far salute"

            Ci sono i bisogni della gente che arranca, che fa fatica. Sono gli stessi bisogni che abbiamo noi, magari un po più colorati, e forse gridati: il bisogno dell'affettività, dell'amicizia, dell'amore. C'è attenzione nelle nostre famiglie, nella scuola, nella Chiesa nell'educare per questi bisogni? C'è attenzione per chi è solo, per chi arranca? Penso spesso agli anziani ed alla loro solitudine! Un secondo grande bisogno è quello della comunicazione, del dialogo e dell'ascolto.

            C'è ancora un bisogno fondamentale, quello di dare un senso, un significato, uno scopo profondo alla vita. Io credo in un profondo bisogno di Assoluto. Ognuno lo esprime a modo suo.

EMMANUELE

FONTE: Autore: Luigi Ciotti; Titolo: Disagio Sociale e Nuove Povertà; Edizioni CdG

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